La mamma volante

di Giuseppina Callea (“Nonna Pina”)

Giuseppina Callea ha scritto un piccolo libro “Storie a Matita” che narra alcune vicende della sua mirabolante vita e che potete richiedere in formato PDF alla fine di questo racconto. 

Dedico questo racconto a tutte le persone, che come me, amano la vita in ogni sua manifestazione e la interpretano come un banco di prova per trovare pezzi di se stessi anche quando gli altri ci remano contro!

Mi piace parlare di Pina, perchè pur essendo nata nel 1936 è una donna ricca di apertura mentale, voglia di vivere e capacità di sfidarsi.

In questo breve racconto Pina si pone come sfida “la montagna” che ama così tanto da decidere, già non più giovane, di andare a vivere in montagna, sull’Altopiano di Asiago, dove l’ho conosciuta la prima volta.

Pina vuole migliorare la sua tecnica “autodidatta” di scalatrice. E questo implica mettersi in gioco in un mondo ancora molto maschile e ad una età non più giovanissima (durante questa esperienza ha un età fra i 45 e i 50 anni).

Tutto questo mi piace perchè fa parte anche del mio modo di pensare e di credere “nella vita”. Penso che sia la nostra capacità di progettare, di fare sempre nuove esperienze anche quando abbiamo più vita alle spalle che davanti a noi, di giocare e anche un pò di “rischiare”. Una vera pozione magica di vita e di grande benessere.

Buona lettura!

La mamma volante

“Pina, perchè non ti iscrivi anche tu al corso di roccia?” Nicolò e Maurizio mi guardano sorridendo con un lampo negli occhi. “Alla mia età? Ma siete matti? Vi rendete conto che gli iscritti sono più giovani dei miei figli?” La domanda mi ha colto di sorpresa ma mi rendo conto di essere lusingata oltre che intimorita.

I due insistono: “Cosa c’entra l’età? Tu hai entusiasmo e determinazione da vendere: Vedrai che riuscirai benissimo!”.

Per qualche giorno questa proposta mi frulla nella testa con insistenza e non riesco a decidermi.

Mi servirebbe questo corso di roccia se voglio rimanere istruttore di introduzione alla montagna quale sono ormai da un paio di anni, mi affascina l’idea delle arrampicate  libere su pareti che incutono paura e rispetto solo a guardarle da lontano, mi eccita il fatto di confrontarmi con giovani forti e impazienti di mostrare la loro audacia, ma soprattutto mi stimola il misurarmi con me stessa, scoprire le mie possibilità e la mia resistenza dalla fatica, la mia capacità di perdermi nell’arrampicata dimentica del monto intero.

L’unica cosa che mi intimorisce è il Direttore, un docente di fisica dell’Università, sulla quarantina, di media statura, cupo e taciturno, quando impartisce gli ordini è secco e perentorio e non ammette errori o leggerezze.

Accetterà una donna come me, considerando che gli allievi sono giovani e in maggioranza maschi?

Decido per il sì!

Dopo la prima lezione di teoria c’è subito una prima uscita. Metto nello zaino lo stretto indispensabile per non appesantirlo e mi carico psicologicamente per affrontare le prima prova: in un’ora e mezza dobbiamo raggiungere il rifugio dove passeremo la notte.

So che mi occorrono circa 20 minuti per carburare e coordinare perfettamente il passo con il respiro per cui lascio vagare a ruota libera i miei pensieri  senza nulla perdere dell’ambiente naturale che mi circonda. L’ho già percorso molte volte  con gli amici, ma è sempre sorprendentemente nuovo e ricco di fascino.

Senza dare nell’occhio ogni tanto controllo quanti ragazzi mi precedono ma, soprattutto, quanti ne ho dietro: pochi per la verità. Siamo a metà del percorso  e il mio passo è cadenzato, il respiro regolare e posso addirittura osare qualche sorpasso. Alla fine però lo sforzo si fa sentire, il respiro si accorcia, i battiti cardiaci aumentano, ma non demordo: arrivo in un’ora e venti e a metà fra i primi e gli ultimi. Sono soddisfatta!

Casco, cordini, moschettoni e iniziamo con i primi rudimenti dell’arrampicata che peraltro conosco già.

Sono roccette alquanto basse ma già tutte con le insidie che preludono le vere pareti. Il mio timore del giudizio del Direttore fa si che quando gli istruttori ad ogni uscita scelgono l’allievo da accompagnare, io mi tenga ben alla larga da lui.

Ma la montagna è il mio mondo e apprendo con facilità, salgo con leggerezza, sorrido alla fine di ogni passaggio impegnativo e riesco addirittura a scambiare qualche battuta con l’istruttore che di volta in volta mi accompagna. Anche la discesa a doppia corda, che mi è famigliare da qualche anno, oramai mi diverte e cerco di allungare il balzo che segue la mia spinta con la pianta dei piedi sulla roccia con l’impressione quasi di volare. Col direttore ci ignoriamo.

Ad ogni uscita il  percorso si fa più difficile, arrampichiamo sul granito o sotto la pioggia, con la roccia ghiacciata o il vento gelido. Oramai siamo tutti amici tanto che alcuni ragazzi mi fanno uno scherzo.

Durante una discesa a corda doppia, a mia insaputa, legano l’estremità in basso della corda a uno spuntone della rocca a 6 o 7 metri da terra così che, anzichè scendere fino alla fine, rimango appesa come un salame roteando in aria. Un fuggevole attimo di paura, poi la fragorosa risata dei ragazzi mi rende addirittura felice!

Così arriviamo all’ultima lezione. E’ una stupenda giornata di primavera inoltrata dal cielo terso e l’aria profumata di verde rigoglioso e siamo seduti in gruppo ad ammirare e a studiare la parete che concluderà il nostro corso. Non è particolarmente complicata, ma l’attacco sempre impegnativo.

Il direttore parte da solo, senza dire nulla e tutti lo seguiamo con lo sguardo attento. A quattro o cinque metri da terra si ferma e cerca appigli. Prova a destra, niente, a sinistra, niente, cambia gli appoggi, ma sono precari e torna dov’era. Fra noi cade un silenzio di tomba e sono certa che tutti si stanno chiedendo se insisterà con cocciutaggine o subirà l’affronto di desistere.

Le sua mani continuano a palpare la roccia alla ricerca dell’appiglio giusto per il passaggio, ma le gambe cominciano a non essere più cosi stabili sugli appoggi. Sembra già che sia fermo li da un tempo infinito, quando, all’improvviso, come se qualcuno gli avesse dato una spinta dal basso, con un’abile spaccata sposta il peso sulla sinistra, acchiappa un appiglio al di sopra della testa e passa trionfante.  Se non fosse quasi un asociale lo applaudiremmo.

Procede sicuro fino ad una comoda sosta, attacca il moschettone di sicurezza e si gira a guardare verso di noi con gli occhi interrogativi.

Cosa mi succede? Da quanto in qua amo le sfide? Lo guardo con sicurezza: “Vengo io” gli dico in un soffio, terrorizzata all’idea che possa rifiutare. Ma lui con un cenno affermativo mi invita a salire.

Come se la roccia fosse vivente, così la sua linfa passa attraverso le mie mani infondendomi una carica, una serenità, una gioia da farmi sentire un tutt’uno con lei, un corpo solo. Con leggerezza ed eleganza, senz’ombra di esitazione, supero il difficile passaggio e velocemente arrivo fino a lui. Colgo nel suo sguardo un lampo di piacevole sorpresa.

Procediamo in silenzio, ci addentriamo in uno stretto camino che ci nasconde alla vista degli altri e sbuchiamo in cima alla parete. Lo sguardo raggiante e lui finalmente, per la prima volta, sorride: io sono in paradiso.

Da sotto mi giungono le voci dei miei compagni: “Brava la nostra mamma volante!!” 

Se avessi le piume del pavone avrei già esibito la mia grande ruota!

(Fosdinovo, 17 febbraio 1999)

“Se siete interessati a leggere “Storie a Matita” nonna Pina è ben lieta di farvelo avere a costo zero, contattatemi o scrivetemi su whattsapp per avere la copia in formato PDF, oppure se volete leggere la sua intervista, potete cliccare qui

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