Emma

Avevo forse dieci anni e per la prima volta mi sono guardata allo specchio. E mi vedevo come non mi ero mai vista.

Punto vita inesistente, spalle cadenti, braccia più lunghe di quelle che pensavo potessero servirmi, bacino largo e ginocchia leggermente vicine.

Anche le gambe, a dire il vero, erano piuttosto lunghe.

Ma questo mi sembrava un vantaggio. Non avendo però un confronto non avrei saputo dire se fossi bella o meno.

Diciamo che stavo bene, mi alzavo la mattina presto per andare a scuola, che frequentavo con profitto – mi accompagnava e mi veniva a riprendere mio papà, come d’uso ai miei tempi – avevo le mie amichette con cui parlare e scambiare opinioni. Portavo gonne plissé a quadroni rosso e blu, calzettoni bianchi e scarpe basse di vernice.

La camicetta con jabot, bianca ovvio, con non so più quanti bottoni, madreperla s’intende. I capelli di solito li portavo a coda, mia mamma mi diceva che avevo i colori della nonna. Quando camminavo la coda andava a destra e sinistra, al passo con l’andatura.

Che mi sembrava vagamente impersonale dato che avevo un problema di sincrono tra braccia e gambe. E anche un leggero mal di schiena.

Va bene, dormivo su un divano letto piuttosto scomodo e potevo alzarmi da una parte sola.

D’estate mi coricavo nell’altro verso perché la corrente cambiava direzione.

Una volta, mi ricordo, mia mamma insisté per farmi indossare una gonna pied de poule che si abbottonava – ce l’aveva coi bottoni – dalla vita al ginocchio lasciando che uno spacco piuttosto generoso si aprisse fino alla caviglia.

Non so se mi piacesse, fatto sta che andando a scuola, e non so più per quale ragione, inciampai. Non fu lesto mio papà a sorreggermi. Porto ancora una cicatrice al ginocchio sinistro.

Un fidanzato

Tornai a guardarmi che avevo vent’anni.

Una trasformazione copernicana – stavo appunto studiando astronomia all’università – e quello che vidi mi piaceva un po’ di più. Piaceva a me e, suppongo, piaceva al mio fidanzato, o quello che io credevo fosse, dato che, come si usava, io lo sapevo e lui no. O viceversa, il che è lo stesso.

Mi guardava dalla finestra del palazzo di fronte mentre, china sui libri, tra eclittiche, nutazioni e rivoluzioni, mi massaggiavo il collo per quel fastidioso mal di schiena che non riuscivo a dominare.

Lui aveva occhiali d’osso, credo studiasse legge.

Tutti quelli il cui papà era geometra, o al catasto o al comune, chissà perché, studiavano legge.

Quelli che invece si iscrivevano a economia, all’epoca Economia e Commercio, di solito avevano genitori che possedevano un’officina che riparava motociclette.

Chi si iscriveva invece a medicina aveva spesso il papà impiegato di banca. Così funzionava in provincia. Insomma, mi scriveva biglietti che poi poggiava al vetro della finestra per farmeli leggere.

Poiché quell’autunno non smise mai di piovere e i vetri erano appannati dal vapore emesso dalle stufe a cherosene, non riuscivo a leggere niente.

Fin quando mio papà mi comprò un piccolo telescopio. Quella notte puntai l’obiettivo verso la sua finestra sulla quale aveva lasciato il foglio, o era rimasto attaccato al vetro. La luce della sua stanza era debole, e qualche ombra sembrava vagare. Mi toccai la cicatrice del ginocchio che in quel momento prese a dolermi un po’.

Quando tornai a puntare lo sguardo alla finestra, il foglio era sparito. E così anche il mio fidanzato. Dalla mia vita intendo poiché con il mio telescopio lo vidi dare solide lezioni di anatomia comparata alla mia più cara amica. Cambiò facoltà e si iscrisse a medicina.

Un marito

Con mio marito ci parliamo poco. Ci siamo conosciuti  un paio di anni fa, era il mio ventottesimo compleanno, e lui molto carinamente mi regalò un libro.

Un bel libro che ho cominciato il giorno stesso in cui me lo ha regalato e che non ho ancora finito. Adesso lui è di là che mi aspetta nel letto, legge le quotazioni di borsa prima di addormentarsi, mentre io mi guardo ancora una volta allo specchio.

Posso dire di essermi arrotondata un po’, gli occhiali mi donano un aspetto gradevole, il mio collega dell’osservatorio mi dice sensuale. Questa parola suscita in me una bella emozione, ma non so se mi piace sentirmelo dire o esserlo.

Non credo di piacergli così tanto da provocare in lui una reazione e non so neanche se mi piacerebbe che accadesse. Tuttavia ha un buon profumo e riesce ad abbottonarsi senza sbagliare asola tutti e ventidue i bottoni del camice.

A me una volta è capitato che agganciassi in modo dissimmetrico il mio camice. Con molta premura mi aggiustò il garbo. Ha mani molto delicate.

Quando regola il fuoco del telescopio lo fa con una precisione siderale. L’altra sera mi ha invitato a guardare l’eclissi di Venere.

Sembrava che Venere stessa si sostituisse all’iride dei miei occhi. Mi sono come abbandonata e proprio allora quel fastidioso mal di schiena mi ha fatto deconcentrare.

Poiché avevo la gonna corta a plissé, non ho certo rinunciato al mio stile, lui ha visto la mia cicatrice al ginocchio e con il suo tocco l’ha sfiorata appena. Non sono sicura di averlo ritratto per tempo. Dovrei adesso andare di là sperando che mio marito abbia terminato di consultare gli indici di borsa e mi permetta di riprendere il sonno da dove l’avevo interrotto.

Una mamma

Mia figlia ha appena compiuto dieci anni. Si chiama Anna. Un po’ come Emma, non trovate?

Poiché è andata un anno prima a scuola -aveva dei talenti nascosti – oggi è il suo primo giorno delle medie. In due ci siamo guardate allo specchio.

Siamo simili, apprezziamo tutte e due il nostro corpo, come siamo fatte, le lentiggini che ci punteggiano il volto, la coda di cavallo, le gambe lunghe, i calzettoni bianchi e le scarpette di vernice nera.

Mi guarda attraverso i suoi occhiali che, guarda caso, sono molto simili ai miei. Ma vorrei che lei crescesse senza l’ansia di piacere, di affrettarsi nelle cose di tutti i giorni, tanto il tempo è sempre dalla nostra parte.

È come l’ombra di Peter Pan. Il tempo intendo. Non gli si riattacca più, perché l’ombra rappresenta il passare del tempo e lui è sempre giovane, non vuole crescere.

Dunque l’accompagno io a scuola così come mio papà accompagnava me. Sembra che nulla sia cambiato, il gradino su cui sono inciampata è sempre lì, il rumore delle grida dei ragazzi riempie ancora l’aria come il canto degli storni che hanno ispirato Georges Bizet, il mio mal di schiena anche.

E anche il nonno, mio papà, e il suo papà sono davanti a scuola che aspettano che arrivi, il primo per salutare una meravigliosa nipote che vede molto poco da quando la nonna ci ha lasciato, l’altro per ricordarmi che questa settimana tocca a lui il turno di tenere Anna.

Neanche la pioggia che da qualche settimana cade copiosa sulla città e lava e pulisce le strade dalla lordura accumulata in mesi di arida e disinvolta sciatteria riesce a coprire e confondere quanto di triste un fotografo alle prime armi potrebbe riprendere in questo malinconico quadretto familiare.

Una stanza

La stanza è decorosa, pulita. Le lenzuola sono fresche di bucato. Sul tavolino un bel cesto di fragole e una bottiglia di vino bianco buono.

Gelido, a giudicare dalle gocce che la imperlano. Fuori da qualche parte, un’orchestrina suona Sophisticated lady, senza il genio di Duke Ellington né il sexy-sax di Harry Carney.

Per fortuna la stagione è iniziata senza quella pioggia battente che mi mette una tristezza quasi infinita e non dà tregua al mio mal di schiena.

La ferita al ginocchio sembra scomparsa, come mio papà. Lui per la verità non c’è più davvero. La mia ferita ancora sì. Non ha fatto in tempo a festeggiare il mio cinquantesimo compleanno.

Ma va bene così, non avrebbe sopportato di sapermi qui, in questa stanza d’albergo, con il mio collega, quello dalle mani delicate.

Anna ha vent’anni e spasima per uno che neanche la considera. Studia legge, figurarsi. Lei gli scrive biglietti d’amore che attacca alla finestra della sua camera sperando che lui li legga. Ma è miope, e la distanza tra il nostro palazzo e il suo – questo è il terzo trasloco che facciamo – è molto grande.

In questo mi somiglia poco, ha già girato l’Europa intera e sta per partire per il Sud est asiatico per non so quale progetto di cooperazione.

Le ho preparato la valigia mettendole dentro le scarpe basse di vernice nera che portavo alla sua età. E una camicetta bianca con lo jabot.

Oggi i bottoni non sono più di madreperla ma di un qualche algoritmo inventato da un gruppo di scienziati che per questa invenzione hanno vinto la medaglia Fields.

Quando è partita non mi ha potuto baciare. I baci, per decreto sono stati vietati.  E in effetti, lo specchio mi riflette in tutta la mia maturità, bella non sono mai stata, però parlo un buon italiano, quando serve.

Un giardino

Finalmente le tuberose sono sbocciate. Il cane che porto a spasso entra ed esce dalle aiuole fiorite creando scompiglio tra gli scoiattoli e le paperelle che affollano lo stagno.

Le clematidi effluviano profumi saturi, si confondono con quello delle mille ragazze che hanno approfittato del bel tempo per fare una passeggiata ai giardini.

Passando vicini l’un l’altro, ragazzi e ragazze si sfiorano, si danno di gomito, si sorridono. Il vento passa tra l’alloro e il mirto e si carica di profumi.

Il sole è pallido, meglio di niente in questo periodo dove tra qualche settimana i temporali cominceranno a investire questa parte del paese. Le mamme portano a spasso i loro piccoli, molti in carrozzella.

Non è strano constatare che tutte le mamme hanno figli gemelli. E’ un altro dei decreti che il nuovo governo ha da poco emanato. E in effetti i notiziari avevano dato questa informazione, forse passata un po’ in sordina, data la crisi climatica che sta devastando l’intero territorio.

È questa l’emergenza che peraltro sembra non impensierire quasi nessuno.

Tuttavia è bello vedere come il tempo porti a migliorare la condizione umana, come le ombre siano ancora di proprietà delle persone, e come i sorrisi delle mamme siano molto compiaciuti e in sintonia, quasi un unisono, con quello dei bimbi.

Il mio cane scorrazza felice alzando nugoli di polvere, inseguendo moriglioni, fischioni e germani reali.

Ma quello che più lo incuriosisce è un piccolo scoiattolo che cerca in tutti i modi di risalire sull’albero ricadendo, ad ogni tentativo, schiena a terra. Lo prende, lo scuote un po’ col muso e me lo porta con delicatezza.

Peccato che i suoi canini abbiamo perforato la pancia dell’animaletto che ora giace esanime ai miei piedi. Lo raccolgo e una fitta dolorosa mi attraversa la schiena. Saranno i miei sessant’anni. Lo guardo con aria di rimprovero.

Un bicchiere

Non pensavo che sollevare un bicchiere mi avrebbe dato così tanta pena.

Del resto ho solo settant’anni, un’età che ai tempi di mio papà era considerata decrepita mentre oggi, con tutto quello che abbiamo inventato, sembra essere il principio di una nuova giovinezza.

Il liquido azzurrognolo che vi è contenuto me lo ha preparato una ragazza con il camice bianco ordinatamente abbottonato.

Le ho chiesto uno specchio in modo che potessi vedermi ma mi ha detto che non sa neanche cosa significhi la parola specchio.

Che non ne ha mai visto uno. Quando le ho detto a cosa serviva quasi ha urlato di paura come se le avessero strappato l’ombra da sotto i piedi.

Mi crede una povera pazza, anche perché il governo ha deciso, complice la disastrosa situazione del paese, sia economica sia climatica, che le persone non possano vivere più di settant’anni. Io mi sono adeguata perché sono sempre stata onesta e rispettosa delle istituzioni.

Trovo questa cosa giusta, anche se ognuno dovrebbe scegliere come, quando e dove lasciare questa terra, tuttavia comprendo che è per dare più spazio alle generazioni future, per migliorare la loro esistenza.

Del resto, mi rendo conto, non è possibile dare assistenza allo stesso modo, a tutti.

Alzando il bicchiere ho percepito come una fitta alla schiena, il mio solito dolore che mi perseguita da sempre.

Con l’altra mano mi sono massaggiata il collo, ho sentito un intenso calore che dalle dita si diffondeva fino alla spina dorsale. Ho continuato e ho continuato, girando la testa ora a destra ora a sinistra.

Ho chiuso gli occhi, buio totale. Una sensazione di pace, di armonia, di serenità. Ho sollevato il bicchiere e ho bevuto.

L’ho posato e mi sono toccata il ginocchio sinistro.

La cicatrice era scomparsa.

(Francesco Marchese

 

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